domenica 30 marzo 2014

Clinamen.

La mia è sempre stata una famiglia senza autodeterminazione.

Uno di quei lunghi cliché senza arte ne parte che mi straziarono l'adolescenza costringendomi a vivere segregata in quelle quattro mura anche quando fuori c'era uno di quei soli caldi e accoglienti. Purtroppo vivevamo lontano da qualsiasi punto d'accesso sociale e questo mi porto, in breve tempo a non avere amici e a vivere in solitudine con quella che, a poco a poco, è diventata la mia peggior nemica. L'altra me.
Per loro era facile, avevano creato così tanti problemi tra loro due che, naturalmente, passarono in eredità al quel povero feto che viveva legato ad un cordone ombelicale che cercava di tirare avanti nonostante il poco cibo e le ripetute botte e litigi. Diciamo che quando sono uscita le cose non sono poi migliorate. Da quel corpicino minuscolo e tutto un livido, nessuno si aspettava nulla. Malnutrito, maltrattato e che non poteva aspettarsi una vita migliore. Era piccolo e indifeso, e nei suoi occhi nessuno vide mai un pizzico di vera felicità. La scuola non lo guardava di buon occhio, non aveva nemmeno spazio per la genialità in un corpicino così misero, con gli occhi lucidi e le occhiaie scavate sul suo visino pallido pallido. Eppure andava avanti; e superava tutti quelli che si fermavano a deriderlo, come tutti i compagni di classe e le maestre. Andava vestito di stracci, con colori sgargianti e a volte un po' malridotti dai lavaggi sbagliati fatti dalla lavatrice. Aveva uno zaino troppo grande per lui, malformato dal peso dei libri e logorato dal tempo. La sua vita è un continuo di momentacci che "passeranno ne sono sicura"; un eterno angoletto della classe nel quale mangiare il suo panino con la cioccolata.

Poi il cibo aumenta di quantità e diminuisce di qualità.
Mangiare lo rende felice, lo riempe di quel qualcosa che non ha mai potuto avere ma che trova nei visi sereni dei suoi compagni di classe. Mangia fino a quando gli unici abiti che gli restano sono quelli di suo papà.
Solo quello gli resta.
Perché non hanno voglia, né tempo né soldi da buttare in quell'abito che aspetta da tanto tempo e che potrebbe alzare un po' la sua autostima. Ma il regalo di compleanno quell'anno non c'era e dovette andare a scuola con una maglia tanto più grande.
Poi piangi e tua madre ti da del cibo scadente trovato chissà dove per farti stare zitta. Poi ingrassi e tua madre ti prende in giro perché sembri una balena, e piangi ancora. Un circolo vizioso che non si conclude mai.
Le persone dicono di volerti bene, ma appena raggiungono i loro obiettivi ti lasciano senza avvertirti, ritrovandoti in un posto buio che non conosci e non sai tornare a casa.
Nessuno ti ama. Te lo ripetono mentre cammini sotto la pioggia con un vecchio giubbotto e ti bagni tutto perché non hai mai avuto un ombrello. Hai una sola penna in tutta cas
a e, quando finisce, non fai i compiti e la tua maestra ti dice che non avrai mai un futuro senza penna.
Ti comprano una penna nuova e, finalmente, cambi e vai alle medie, ma ti ritrovi le stesse persone che ti hanno riempito il cuore di graffi e, anche se ti guardi attorno, non c'è via d'uscita e passi altri tre anni cercando di risanare qualche ferita profondissima e, ancora, finisci all'angoletto a leccarti le ferite che però si lacerano ogni sera.
Vedi gli altri che fioriscono, vedi l'amore nell'aria, l'amicizia e i pigiama party e ti chiedi il perché gli altri possano averlo e tu no. Te lo ripeti ancora: Perché io no?

Perché in questo grande disegno che voi chiamate vita deve esserci una vittima che, però, nessuno conosce. Nessuno sa la storia, ma la storia c'è. E purtroppo, perché il protagonista vinca, si ha bisogno di ingenti perdite.


Sono la perdita, mai la protagonista. Noi moriamo perché qualcun'altro possa vincere. 

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